La Terra di Dio, il film gay capolavoro!

Un vero e proprio successo arthouse e imprevedibilmemte, questo God’s Own Country, più piattamente nel titolo italiano La terra di Dio. Che poi sarebbe lo Yorkshire, nord selvaggio e brusco dell’Ingilterra, tra brughiere e pascoli e cieli di nuvolaglia scura e mutevole. Tantopiù sorprende il successo di un film lgbt come questo – i politicamente correttissimi e informati dicono lgbtqi – in un paese dove anche il pubblico cinefilo non ha mai granché apprezzato il genere (e ancora brucia il flop pauroso l’anno scorso del magnifico 120 battiti al minuto di Robin Campillo nonostante un premio grosso a Cannes). Difficile capire cos’abbia convinto stavolta spettatori e spettatrici democratici e di ceto medio riflessivo, ma nel loro profondo assai conservatori, che sono restati i soli ormai a consumare cinema d’autore. Forse – provo ad azzaradre – l’analogia benché di superficie e tutta esteriore con il più mainstrem e mno perturbante dei film lgbt, quel Brokeback Mountain che vinse a Venezia e sfiorò molti Oscar. Perché pure in God’s Own Country si parla e si mostra una passione erotica uomo-uomo in mezzo a animali pascolanti, modi rudi e duri del vivere, lavori sporchi letteralmente di merda e fango. Tutto un baciarsi e avvinghiarsi e penetrarsi mentre le pecore laggiù belano e partoriscono agnelli nel sangue e nel letame. Però, mi aspettavo di più e di meglio, visto il carico di premi e di partecipazioni festivaliere con cui il film si è presentato nelle nostre sale (in qualche sala per meglio dire, distribuito da Fil Rouge Media, cui si deve anche l’uscita di The Woman Who Left di Lav Diaz). Critiche estatiche di qua e di là dell’Atlantico, e alla Berlinale 2017 dove il film di Francis Lee venne proiettato se ricordo bene alla sezione Panorama. Leggendo la sinossi – film gay britannico di ambiente proletario – ho pensato a qualcosa di molto affine a quello che resta il capolavoro del cinema gay dell’ultima decade, Weekend di Andrew Haigh, altrettanto gay, inglese e working class. Purtroppo siamo lontani da quel risultato. Spira lungo God’s Own Country un che di inautentico, di artificioso, nonostante il quadro di bruto neo-neorealismo in cui l’amore tra il farmer Johnny e il rumeno immigrato Gheorghe viene inserito, anzi affondato. Ma è proprio il naturalismo scelto dalla regia a sottolineare per contrasto l’inattendibilità della storia d’amore e i suoi turgori, a stridere con la sua sostanza melodrammatica. Del resto, siamo in pieno cinema inglese che strutturalmente, geneticamente è sempre cinema-teatro, cinema della mise in scène, cinema della recitazione e dell’inganno anche quando pretende di mimare il vero e si autoproclama cinéma-vérité. Il cinema inglese è, sempre, inesorabilmente, cinema in costume. E dunque, che differenza tra questo film e uno del grande e implacabile cinema rumeno contemporaneo (cui forse la nazionalità del co-protagonista Gherghe potrebbe rimandare cripticamente) o con la lezione dei Dardenne. C’è davvero in mezzo la Manica a segnare la peculiarità del cinema british, la sua insularità e irriducibilità a qualsiasi modello continentale. Se i Dardenne si sintonizzano sulle pulsazioni del reale, questo (e altri film made in UK) tutt’al più le riproduono artificialmente. Sicché il riferimento non confessato e segretissimo di God’s Own Country a me sembra più l’amore folle e romanticamente estremo di Cime tempestose. Stesse brughiere, stessa passione per un uomo venuto da lontano con la sua carica di sensualità zingaresca (e difatti il cupo inglese di campagna Johnny urla sprezzantemente “gipsy” al rumeno Gheorghe arrivato nella sua farm). Ma allora, perché non scatenarsi davvero nel melodramma senza depurarlo e penalizzarlo in una confezione naturalistica?
Il giovane uomo Johnny ha parecchio, troppo, a cui pensare: una fattoria di animali, perlopiù ovini, da mandare avanti da solo dopo che il padre ha avuto un ictus (la madre se n’è andata via da quel posto disgraziato molti anni prima: “voleva fare la parucchiera giù al Sud”, spiega Johnny) e la nonna, che già si occupa della casa e della cura dell’infermo e più di tanto non può fare. Johnny si abbrutisce di alcol, è gay ma non lo ammetterebbe mai, quando capita si scopa qualcuno nei cessi del pub giù al villaggio e poi via, a casa, niente legami, niente storie (e scappa anche dal dottorino o farmacista – ha il camice bianco – che invece avrebbe tanta voglia di imbastire una storia dopo la scopata). Quando non ce la fa più a tirare avanti da solo , si decide su consiglio di nonna e babbo a far venire alla fattoria un aiuto, ed ecco spuntare il moro immigrato rumeno Gheorghe. Uno che sa benissimo l’inglese, è acculturato, è efficiente e capace e portato per vocazione a lavorare con gli animali, sicché non si capisce perché sia venuto a farsi maltrattare in quello sporcp e buio e inospitabile angolo di mondo, messo oltretutto a dormire in una roulotte semidistrutta parcheggiatà lì fuori tra le galline e i maiali grufolanti (o fose i maiali no, francamente non ricordo). Naturalmente Johnny lo tratta con disprezzo, lo chiama razzisticamente zingaro, ma diventerà da lui presto dipendente. Perché Gheorghe ha le mani d’oro, dove interviene lui tutto si sistema: le pecore partoriscono senza problemi, i vitellini orfani vengono adottati e allattati da madri estrenee, i muri pericolanti ricostruiti, le stalle più sozze prontamente ripulite. Un Mary Poppins della brughiera, ecco. Scontri e malumori tra i due da maschi alfa, ovvio, ma è proprio insultandosi e rotolandosi nella lotta che si baciano, si avvinghiano, si scopano la prima volta. Sarà passione. Intanto papà ha un altro ictus e la nonna nulla dice ma tutto capisce. Ci saranno baruffe tra i due innamorati, ma di più non dico. Se non che God’s Own Country spreca un’occasione ingabbiando i suoi due personaggi in un cinema di aspro e disadorno neorealismo quando la vocazione che sta sotto è quella tutta opposta dell’esagitato melodramma, della selvaggerie erotica, pur se british. E dunque non solo Cime tempestose, ma pure tante storie letterarie e cinematografiche con uomini rudi in ambienti campestri e stalle, dall’Amante di Lady Chatterley a Messaggero d’amore di Losey-Pinter a Donne in amore di Ken Russell. Un film che ne contiene parecchi di interessanti, ma che non ha il coraggio di seguirne davvero nessuno per rifugiarsi in una confezione arty a uso dei festival e delle platee consumatrici di cinema ostentatamente alto. Sicché il meglio alla fine sono le prerformance attoriali di Josh O’Connor, che al suo Johnny torturato e introverso dà gli accenti di verità che al film mancano, e Gemma Jones cui basta uno sguardo obliquo per rndere memorabile il personaggio della nonna che tutto vede e sa pur tacendo. Il regista Francis Lee viene davvero dalla campagna, e la farm che vediamo è quella della sua famiglia: come, peraltro, in un altro film recente sul duro lavoro del contadino e dell’allevatore, il francese Petit Paysan. Anche lì il giovane regista Hubert Charuel ha girato nella fattoria di famiglia, anche lui, esattamente come Francis Lee, a un certo punto ha dovuto decidere se continuare a fare l’allevatore o dedicarsi al cinema. Tutti e due hanno scelto il cinema, ma i loro film sono +un omaggio al mondo che hanno lasciato, e forse una rielaborazione del senso di colpa per averlo lasciato. Nota: mai al cinema si erano vist tanti parti di mucche e pecore.